L o r o
Il mio nome è Rachel, è l’unica cosa che so di me.
Lo hanno scelto “Loro”, così come quello dei miei compagni, secondo quanto c’è scritto sul libro che chiamano Bibbia.
Non conosco nemmeno la mia età, anche se credo di essere la più grande nello squallido inferno che definiamo “casa”.
In effetti mi sembra di essere qui da sempre, della mia vita precedente non ho che vaghi ricordi: la voce di una donna che cantava una nenia per farmi addormentare, il tocco impalpabile di una mano che mi carezzava i capelli… profumi buoni diversi da questo fetore rivoltante. E poi rammento un giocattolo, un balocco appeso sopra il letto che danzava cercando il mio sorriso. Gesti gentili in un clima sereno che non esistono più da molto tempo.
Nella “casa” non è mai stato così. La tensione fra noi cresce di continuo e spesso la sera quando ci chiudono qui sotto scoppiano liti. Qualche volta capita persino di venire alle mani come un branco di cani rabbiosi. Amos ha sempre fame, il mangiare è scarso, “Loro” ci danno il minimo per riempire la pancia e sappiamo che questo serve a tenerci al guinzaglio. Siamo animali legati ai padroni. Anche stasera lo hanno fatto: i miseri avanzi della cena che hanno consumato sono diventati il nostro lauto pasto, ma stavolta Noah è riuscito a rubargli un bel pezzo di pane senza farsi vedere e adesso ognuno di noi reclamerà la sua parte.
“Allora? Si divide?”
Amos, come al solito, quando si tratta di cibo non ragiona e non vuole perdere tempo. Noah lo guarda con disprezzo staccandone una piccola porzione e gliela allunga.
“Tutto qui?”
Il pezzo che gli dà è insignificante, Amos glielo strappa per intero dalle mani e per tutta risposta si becca uno spintone.
“Ehi, che cazzo stai facendo?! L’ho preso io e io decido quanto dartene!”
C’è aria di rissa. Noah si scaglia a peso morto contro Amos e finiscono entrambi sul pavimento senza che possiamo intervenire. Rotolano avvinghiati fino allo scaffale di legno appoggiato alla parete e lo tirano giù. Il rumore è forte. Nessuno di noi si muove più, abbiamo tutti paura. Se hanno sentito saranno dolori, sappiamo perfettamente quali tipi di punizioni ci riservano.
Istanti interminabili ma non arriva nessuno. Forse ci è andata bene.
Noah e Amos sono ancora abbracciati per terra ma c’è qualcosa di nuovo. Accanto a loro una piccola voragine sul pavimento ha preso il posto dello scaffale. Le assi di legno marcite sono in parte divelte. Il buco nero che si è generato sembra un invito a guardare oltre. Ci avviciniamo con sospetto e timore ma la curiosità non ci farà desistere. Sono la prima a metterci le mani, non so dove ho trovato il coraggio però sono qui da più tempo di tutti e questa zona “morta” rappresenta una minaccia e una sfida a uno spazio vitale che ormai pensavo di conoscere come la mia pelle. Incurante delle schegge sradico un asse che viene via con facilità e senza tanto rumore.
Giù non c’è il vuoto che mi aspettavo, anche dall’oscurità della stanza si intravedono gradini e una specie di scala che sembra procedere sottoterra.
Nessuno parla. Nessuno riesce a fare il primo passo finché Noah non apre bocca con una sentenza.
“Ce ne andiamo!”
Non sappiamo dove porta né se terminerà appena oltre la scala, eppure ognuno di noi attendeva solo un’occasione come questa e non la lascerà fuggire anche se quel buco conducesse direttamente nell’oltretomba. Prima che possa tentare di organizzare qualcosa, Noah si è già infilato nella spaccatura e in un lampo viene inghiottito dall’oscurità. Amos, seppur terrorizzato, gli va dietro e anche lui sparisce nel nulla. Uno sguardo d’intesa tra me e Ruth, che mi fa cenno di andare perché si occuperà lei del piccolo Adam. Metto un piede sul primo gradino, dilato le pupille come un gatto ma non vedo nulla, a malapena avverto le voci dei miei compagni che sono scesi. Non arrivo neanche al quarto gradino e il cuore si ferma per un lungo istante. Rumore di chiavi che girano nella serratura, la porta della nostra prigione si sta aprendo: “Loro” sono qui.
È il panico. Ruth si volta e afferra come può il piccolo Adam, paralizzato dal terrore. Lo solleva di peso e lo infila nel buco lasciandolo scivolare giù. Me lo trovo addosso e a stento trattengo quel fardello agitato piovuto dall’alto. Lo stringo come posso e insieme scendiamo gli ultimi gradini. Ma Ruth non arriva. Mi fermo nel tunnel con Adam che si aggrappa alle mie gambe perché ha paura del buio, poi sento le urla. Ritorno sui miei passi fino allo squarcio e l’attimo successivo la sua faccia stravolta e piangente compare nella voragine. Ed è l’ultima volta che la vedo.
Qualcosa saetta nell’aria e le colpisce la testa una, due, tre volte. Gli schizzi di sangue mi arrivano sul viso. Sono senza fiato. Mi giro e fuggo via da quell’orrore, corro seguendo il percorso obbligato senza guardare dove vado e mi ritrovo a contatto con gli altri.
“Presto, correte! – urlo disperata – Ci hanno scoperti! Non dobbiamo fermarci finché saremo fuori da qui.”
Il mio richiamo scatena una fuga senza tregua, all’ultimo respiro.
Istanti. Adam che mi era davanti cade e quasi lo travolgo, poi ritrovo equilibrio e lo aiuto a rimettersi in piedi. Corriamo. Il cuore è un tamburo impazzito. È il gioco che ogni tanto facevamo la sera prima di crollare: mosca cieca dentro l’angusto dormitorio con uno di noi bendato dalla sua maglietta. Ma adesso c’è in palio la vita. Loro ci stanno inseguendo e se qualcuno si ferma farà la fine di Ruth.
D’improvviso un lieve chiarore illumina il tunnel. Non so per quanto tempo abbiamo corso ma quella che abbiamo davanti è la nostra salvezza, un ultimo sforzo e saremo fuori di qui.
L’aria più fresca e il riverbero lunare sono il premio alle nostre fatiche.
Noah esce per primo facendosi largo tra i rovi di un cespuglio. Poi è la volta mia e di Adam che ancora tenevo per mano. Ci ritroviamo tra le piante, sembra un bosco ma nessuno può sapere dove siamo finiti. Un silenzio innaturale ci entra nel sangue come linfa di un albero e ci nutre di paura. Manca Amos. Solo ora ce ne rendiamo conto, lì sotto non si vedeva niente e io credevo di averlo avuto sempre davanti a me. Quando ci voltiamo verso il cespuglio da dove siamo sbucati i rami si muovono. È Amos, il suo viso emaciato e pieno di graffi compare all’improvviso ma non facciamo a tempo a gioire che un grido straziante ci riempie le orecchie.
I suoi occhi si spalancano e diventano due abissi di doloroso stupore. Ci fissa mentre le labbra tremanti si schiudono in una strana smorfia. L’attimo successivo il suo corpo rovina per terra di fronte a noi e si contorce per qualche secondo, poi resta immobile: al centro della schiena spunta il manico nero di un lungo coltello da cucina, la lama è conficcata quasi per l’intera lunghezza dentro il suo corpo.
Un improvviso frusciare di foglie e il cespuglio si muove per aprirsi nuovamente: sono Loro!
Gridiamo tutti con la stessa intensità. E l’urlo spaventoso che si dilata nell’etere ha il solo effetto di paralizzarci le gambe, finché Noah mi rifila una spinta e riesce a trovare la sola parola sensata prima di voltarci le spalle e fiondarsi tra gli alberi:
“Scappate!”
Afferro Adam per il polso e non me lo faccio ripetere. “Siamo morti”, penso mentre corriamo, stiamo fuggendo ma siamo già tutti morti come Ruth e Amos. Nessuno rivedrà mai più la propria famiglia.
Noah è dieci metri più avanti. Per un attimo sembra svanire nel bosco come un folletto delle fiabe, ma poi tutto accade in meno di un respiro: una radice lo tradisce, un gemito soffocato gli scappa dalla gola riarsa. Impreca, bestemmia, si trascina e prova a puntarsi ma non si rialza, la caviglia è andata. Guarda verso di me mentre lo supero con il piccolo Adam al seguito. Scuote la testa e tende il braccio nella mia direzione. Rallento ma senza fermarmi. Loro lo raggiungono e gli sono addosso.
Non posso far niente per lui. Adam si blocca terrorizzato a guardarlo. Nel suo calzoncino appare una macchia umida che si allarga finché tutto il piscio gli cola lungo la gamba. Maledico il cielo, la terra e persino chi ci ha creato. Lo afferro per il polso e con uno strattone lo costringo a seguirmi.
Corriamo e sento Noah difendersi come una belva ferita. Non vuole farsi riportare là sotto ma quando comprende di non avere più scampo riesco a udire le sue suppliche, li implora di avere pietà. Ma Loro non ne hanno. Lo colpiscono ripetutamente per finirlo. Posso sentire i colpi che frantumano le ossa. Mi fermo pentita. Riesco a vederli. Il disco lunare dipinge l’immagine nitida di un incubo. Lei, inginocchiata, brandisce il coltello che ha strappato dal corpo di Amos, Lui, in piedi, vibra il grosso martello con il quale ha ucciso Ruth. È un massacro. Lo macellano come un agnello innocente nel giorno di Pasqua, i loro vestiti si impregnano di quel liquido rosso finché le urla si interrompono in un ultimo rantolo. E nel bosco ritorna il silenzio.
Prima che la scena si spenga, le mie gambe ripartono in azione. “Non mi volterò un’altra volta”, decido, non c’è più niente al mondo che mi possa fermare. Poco dopo, invece, Adam si lascia andare per terra sfinito; le sue gambe corte e le poche energie non riescono a tenere il mio passo. Lo scongiuro di proseguire, arrivo a urlargli contro male parole, ma per quanto la paura sia uno stimolo potente non ha più fiato. Devo trovare aiuto. Mi guardo in giro disperata senza sapere cosa fare, poi il bosco stesso mi offre un riparo. Una buca sotto un albero è abbastanza profonda da nasconderci entrambi. C’infiliamo abbracciati e ricopro con il fogliame secco i nostri corpi fin quasi a farli sparire. Se non ci hanno visto… se non passeranno troppo vicino a noi… se la fortuna per una volta… se…
La notte trascorre tra il fruscio di piccoli animali e un vento che si è alzato improvviso sibilando tra i rami, ma quando l’alba sorge livida ci trova ancora vivi. Nessuna traccia di Loro, spero abbiano rinunciato anche se sono la prima a non crederci.
Dopo mezz’ora di cammino incontro al nulla siamo già stremati, poi vedo la vegetazione diradarsi e come un miracolo appare una strada. La seguiamo in una direzione qualunque, non c’è anima viva eppure prima o poi qualcuno dovrà passare. Appena ci fermiamo sul ciglio per riprendere fiato le mie suppliche vengono esaudite. È un grosso furgone bianco e porta una strana forma sul tetto. Ci scorre di lato e mentre mi sbraccio tentando di fermarlo vedo bene il grosso oggetto con tre palline colorate e la scritta che dice icecream.
Si è fermato. Apre la portiera e ci fa segno di venire. È un vecchio dai lunghi capelli di un bianco ingiallito.
“Salite.”
Non dice altro. Non chiede chi siamo né perché ci troviamo in quel posto nel mezzo del nulla. Tengo in braccio Adam e avverto ancora il suo tremore. Il vecchio ci guarda e sorride, gli mancano due denti davanti e manda un odore cattivo. Riparte premendo un bottone e come per magia la macchina parla, qualcuno annuncia con una voce allegra:
“E ora il meglio della musica country!”
Un pallido sole tenta di scaldare il vetro. Prende gli occhiali scuri ma nel farlo scorgo la foto appesa sotto la tendina. È il vecchio e ai suoi fianchi ci sono Loro. Sorridono tenendosi allacciati come in un ritratto di famiglia. Non ho tempo di ragionare, metto la mano sul volante e lo giro di scatto. Usciamo di strada finendo contro un albero e tutto si fa buio. Quando apro gli occhi il vecchio è ancora accanto a me. Mi fissa con uno sguardo vuoto senza dir nulla. Un rivolo di sangue cola dalla fronte dividendosi lungo il naso e le gocce si staccano lente finendo sui suoi calzoni. La sua testa è appoggiata in una posizione innaturale che lo fa sembrare una marionetta disarticolata. Sento la manina di Adam che mi scuote. È sempre ancorato tra le mie braccia, confuso ma non ha alcun segno visibile. Indica la mia fronte. Mi tocco e fa male. Ho un piccolo taglio, gli faccio segno che è tutto okay e non deve spaventarsi, lo stringo forte e proprio in quel momento qualcuno batte sul vetro quindi apre la portiera. Le sue mani mi cingono e ci aiuta a scendere.
“Va tutto bene? Ce la fate a reggervi in piedi?”
Annuisco mentre il mio viso si specchia nei suoi occhiali e osservo lo strano cappello che porta. Ha un bel vestito con una cintura nera in vita piena di cose attaccate e una stella dorata che gli brilla sul petto. Anche la sua macchina, ferma sul ciglio della strada, è curiosa, con la luce blu sopra il tetto che si accende e si spegne in continuazione.
“Mi sembra che non avete niente di rotto, il povero Lemmy non può dire altrettanto. Tu piccola vieni qua che mettiamo subito un cerotto su quel taglio per fermare il sangue.”
Non lascio Adam nemmeno per un istante ma l’uomo sembra essere una persona buona e da una cassetta presa in auto tira fuori il necessario per occuparsi della mia ferita.
“Brucerà solo un attimo e poi ci mettiamo su questo e non sentirai più niente.”
Non faccio una smorfia. Non è dolore quello che avverto, lui non sa cosa sia il dolore vero.
“Sei stata bravissima. Ora salite dietro che vi metto le cinture, tra poco qualcuno si occuperà di voi.”
L’automobile parte e la magia si ripete: qualcuno parla e l’uomo col cappello gli risponde da una piccola scatolina che tiene nelle mani, dicendo cose che non capisco. Vedo il suo sguardo dallo specchietto che ogni tanto mi punta, forse perché la mia faccia è tesa e impaurita per ogni impercettibile segnale che cerco di interpretare.
“Tranquilla piccola, ora sei al sicuro.”
Guida per un pezzo e ci sorride sempre, poi d’improvviso lascia la strada e svolta in un sentiero sterrato. La macchina sobbalza di continuo e Adam si diverte imitandone il rumore con i suoi versi. Mi sto rilassando, finalmente, non riesco a fare a meno di pensare alla sorte terribile toccata agli altri ma noi due siamo vivi e per la prima volta nella mia vita vedo quella cosa chiamata futuro.
In lontananza appare una casetta di legno circondata dal verde, la macchina si ferma di fronte e l’uomo col cappello scende.
“Siamo arrivati.” Annuncia con tono rassicurante. Spalanca il nostro sportello e ci prende per mano invitandoci ad uscire. La sua stretta è più forte di quanto dovrebbe e mi fa quasi male.
La porta emana un gemito mentre si apre e Loro compaiono sulla soglia con un sorriso inquietante.
“Bentornati a casa.”
***
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