Serial... stories!
Nuova pagina dedicata a tutti coloro che, oltre ad apprezzare il mio stile di scrittura, amano generi e ambientazioni dai quali prendono vita i miei personaggi. Ogni mese sceglierò un racconto da proporvi che verrà sezionato e proposto a puntate, corredato poi dal contributo di foto e/o video che ne accompagnano la promozione.
Racconto di dicembre
Per questo mese vi propongo un esperimento: il racconto è di genere Weird, ed è incentrato sul Giappone e le sue tradizioni (ne avevo già accennato in un post, ma per chi ancora non conoscesse le caratteristiche di questo particolare horror/paranormale dedicherò più avanti un intero articolo). Fatemi sapere se gradite o lo trovate troppo distante dal vostro immaginario. Critiche e suggerimenti costruttivi sono sempre ben accetti. E ora, menti aperte e tuffatevi in un dramma giapponese a tinte Weird.
“4:44”
Prefazione:
“Ogni anno, il terzo giorno del
terzo mese, le acque si riempiono di corpi silenziosi. Bambole hina trascinate
via dal fiume, funerali muti che promettono di portare con sé la sfortuna. Ma
non sempre ciò che galleggia è soltanto un simulacro: a volte, ciò che l’acqua
reclama appartiene davvero al mondo dei vivi.”
Capitolo I: “Gemelle”
Un lampo sfocato. Il corpicino
galleggiava come una bambola hina, trascinato dalle acque nere del porto. La
fragile testolina riaffiorava ogni tanto dal liquido pece.
La pelle aveva cambiato colore, era
fredda, violacea. Sembrava già appartenere a un altro mondo.
Gli occhi, ancora aperti, fissavano
il vuoto, mentre il lieve incresparsi del mare cercava di portar via le tue lacrime.
I capelli, neri e lisci come la seta, si erano
sciolti dalla bellissima acconciatura da geisha che portavi quel giorno per
insinuarsi fra le labbra pallide e screpolate, spinti dalle onde di barche
ormeggiate. Il kimono dorato che portavi per il festival era appesantito dall’acqua
e le lunghe maniche ti trascinavano verso il fondo.
Forse già non respiravi più.
Tenevi lo sguardo fisso su di me, ma
non potevo fare nulla per salvarti. Il mio corpo era come fosse ceramica, non
riuscivo più a muovermi, potevo solo rimanere ferma fissando a mia volta quegli
occhi ormai vuoti che venivano divorati dall’oceano.
Chiaki, sorellina mia, cosa ti ha
fatto quel mostro?
Perché ti ha separata da me per
sempre? E perché la mamma non dice più nulla?
Eri una brava bambina, obbediente e
rispettosa, come ha potuto farti questo papà?
Ricordo ancora quando ti prendevo in
giro per essere la più piccola, e tu ribattevi che avevamo solo 8 secondi di
differenza. Ma io li consideravo più che sufficienti per atteggiarmi da sorella
maggiore. Nostra madre ci aveva raccontato che il parto era stato molto
doloroso e che l’abbiamo quasi uccisa perché nessuna delle due voleva
abbandonare il suo corpo. Ma era un nostro diritto, no? Anche se forse,
custodite fra le viscere strette del suo ventre, l’una attaccata all’altra,
avrei potuto continuare a proteggerti.
Ci confondevano tutti, dicevano che
era come guardare un riflesso allo specchio senza distinguere l’originale.
Persino lei, a volte, mi chiamava col tuo nome. E io mi arrabbiavo. Eppure
eravamo così diverse. La tua bocca era più sottile della mia e leggermente
spostata a sinistra. I tuoi occhi più grandi. E avevi sempre quel ciuffetto
nero di capelli che scivolava via ribelle dalle pettinature perfette che ci
faceva papà.
Mi manchi tanto, Chiaki.
Domani sarà un anno dalla tua
scomparsa. Il tre marzo, Hinamatsuri, la festa delle bambine. Mi chiedo se
toccherà a me. Forse potrò finalmente raggiungerti. Ho undici anni ormai, io
sono pronta. Posso sopportare qualunque cosa. Anche se, lo confesso, ho paura.
Papà è sempre segregato nella sua
bottega. Soprattutto in questi giorni che il lavoro da kashirashi[1] lo sta riempiendo di
quelle stupide bambole da fare per il santuario. Le odio. Le odio con tutta me
stessa. Ha sempre preferito loro a noi e mamma. E poi, le trovo orribilmente
inquietanti. Odio loro e odio questa festa maledetta che ha portato via la mia
amata sorellina.
Ormai è talmente ossessionato che ha
spostato il suo laboratorio in casa, un locale angusto che puzza di legno e
acrilici con una piccola lampada pieghevole che fa i capricci. Rimane per ore con
la schiena ricurva su un vecchio tavolino di seconda mano, a dipingere quei
visini assenti che provano invano ad essere umani.
A volte resto lì a fissarlo lavorare,
ma non mi degna di uno sguardo. Sembro diventata invisibile ai suoi occhi. Mi
capita di desiderare di essere una di quelle noiose bambole per ricevere almeno
un frammento del suo amore.
Ieri è passata da noi la piccola
Asami, la figlia dei pescatori Yamada. Voleva comprare una delle hina da portare al festival di domani.
L’ho sentita farneticare di un rituale proibito al santuario Awashima: un
passaggio verso la dimora degli spiriti. Asami ha sussurrato al papà che era un
segreto e lui, accennando un sorriso, le ha detto che avrebbe mantenuto il
silenzio. Ma non sembrava credere davvero a quella storiella. La mamma invece è
fuggita in cucina a piangere. Forse perché Asami ti somigliava.
A me non ha mai rivolto attenzioni, anzi,
penso che abbia iniziato a odiarmi… anche se di notte, ogni tanto, mi prende in
braccio e scoppia in lacrime pregandomi di fare qualcosa che non comprendo.
Da quando non ci sei più, la casa è
diventata un teatro di urla e silenzi. Tutto è peggiorato. Mamma è diventata
quasi scheletrica e papà è sempre più taciturno. Sembrano tutti molto
arrabbiati con te, anche se ancora non capisco che cosa hai fatto. A volte
nostro padre si addormenta sul tavolo da lavoro coi pennelli ancora in mano e
gli occhi arrossati, ci sono tante bottiglie di vetro vuote sparse per la stanza.
Mi piacerebbe prendere tutte quelle
bambole e romperle per terra, ma ho troppa paura di farlo arrabbiare.
Ormai nemmeno casa è più un posto
sicuro, un sacco di estranei ci vengono a trovare per acquistare le hina della bottega. Non ho più pace.
Oggi quei teppistelli dei figli del signor Sakamoto mi hanno chiamata per
l’ennesima volta “kopi shippaishita”[2]; da quando si è sparsa la
voce qui a Kada[3] lo
fanno di continuo, dicono che la nostra famiglia sia maledetta. Mi hanno anche
buttata per terra e mi sono sbucciata un ginocchio. Papà si è arrabbiato
moltissimo, pensavo che le vene sulla sua fronte sarebbero esplose. Quando ha
sentito il rumore è corso subito qui e mi ha tirata su da terra, medicandomi
mentre tremava tutto. Il sudore colava copiosamente dal suo viso e aveva gli
occhi sgranati. Ho provato a dirgli che ormai sono grande e forte, ma non
sembrava nemmeno sentirmi in quel momento. Il signor Sakamoto continuava a
scusarsi col capo chino fin quasi al pavimento e parlava di dare soldi a papà,
ma alla fine non era che un graffio per fortuna. Sai, è da un po’ che ci penso,
forse hanno ragione… forse senza di te non sono altro che l’eco di un tunnel
senza voce.
Chiaki, anche il tuo spirito si
trova nel posto di cui parlava Asami? Se fosse così… posso venire a prenderti!
So dove ti tiene nascosta nostro
padre. Aspetta ancora un pochino, sorellina, ti riporterò qui con me, te lo
prometto. Aspettami.
Capitolo II: “L’anima delle cose”
«Seishi, quante volte devo ripetertelo ancora?! Dovresti
lasciar perdere, è solo altra sofferenza. E vederti buttare la tua vita, la
nostra vita, dietro a quelle stupide bambole non cambierà le cose. Ne abbiamo
già parlato».
«Hitomi tu non capisci, io so che posso sistemare le cose.
So che possiamo ancora essere felici! Quest’anno andrà meglio, te lo prometto.
Me lo sento, Hitomi, devi solo crederci anche tu. E dovresti mangiare di più,
sei troppo debole, ormai ti si vedono le ossa. Mi fai impressione. È colpa tua
se non ci riusciamo!»
Il tonfo della porta del bagno che
sbatte, conati di vomito che rimbombano nella stanza.
Perché si comporta così? Se solo
Hitomi seguisse le mie indicazioni, forse…
È lei a non capire. Io sono l’uomo
di casa, ho il diritto di creare una famiglia perfetta. Ormai in questa
maledetta cittadina parlano tutti di noi. È così frustrante. Ma io devo continuare a farlo. Perché nessuno
capisce?! Chiaki è stato l’ennesimo fallimento, è vero, ma forse Nahoko potrà
farcela quest’anno.
«Io so che voi siete le uniche a comprendermi, bambine mie.
Le uniche che non mi giudicano. Non sono pazzo. Sono solo un buon padre. Sono solo un buon padre. Ora vieni qui,
Yui, lascia che ti sistemi quella brutta sbavatura sulla bocca. Gli occhi ormai
dovrebbero essere asciutti, tra poco sarai pronta anche tu per fare felice
qualche bimba domani».
Mentre lavavo i pennelli incrostati
di colore mi sono incantato allo specchio: quei fili d’argento sulla mia barba
prima non c’erano. Gli anni passano così velocemente, tutti uguali, e io tra
poco non avrò più tempo. Mia moglie, Hitomi, è ancora giovane, anche se nel
corpo e nell’anima sembra già morta. Nell’anima… sì… ricordo che quando ero piccolo mia nonna mi
portava al tempio shintoista Awashima e mi faceva pregare. Diceva che l’essenza
della vita risiede in tutte le cose, e per questo dobbiamo trattarle con cura.
Il santuario della nostra cittadina è la dimora di tutti quegli oggetti a cui
ci siamo affezionati così tanto da non volerli buttare, e lì possono riposare
in pace dopo un’intera esistenza al nostro servizio. Anche le mie bambole, le mie bambine, ne posseggono una. Un’anima
intendo. Forse anche più di lei. Hitomi ha rinunciato alla vita molto tempo fa,
ma non le permetterò di rovinare le cose… Guardati, Seishi, sei solo un vecchio
che farnetica davanti al suo riflesso. Ora torna al lavoro.
«Fumiko, piccola mia, quante volte te lo devo dire che i
tuoi capelli devono restare raccolti? Sei proprio una piccola ribelle! E tu,
Hatsuyo, non pensi di starci mettendo un po’ troppo ad asciugare? Le tue
sorelline sono già pronte da un pezzo. Machi stai attenta, se ti sporgi in quel
modo dalla mensola finirai per cadere e farti male. E io dovrò ricominciare
tutto da capo! Siete proprio tremende, mi farete invecchiare prima del tempo!»
Capitolo III: “Ceramica e carne”
Esiste un luogo che può essere
raggiunto solo alle 4:44 di notte.
Qui in Giappone il numero quattro
significa morte[4]. Non è
certo di buon auspicio. Ma forse devo attraversare la morte per ritrovare la
vita. È un posto che non si trova da nessuna parte, dove il tempo non scorre.
Un varco
difficile da raggiungere, impossibile da lasciare..
Non ha un nome. Alcuni dicono che
nemmeno esista.
Ma è proprio lì che sto andando.
2 marzo, ore
20:45
Chiaki, vedrai
che funzionerà. La tua sorellina Nahoko sta venendo a prenderti. Ti ricordi la
storia che ci leggeva la mamma prima di dormire? L’unica che ci abbia mai raccontato, quando ancora
ci cullava la sera…
Te la ricordi? La storia di Sadako,
la bambina che dopo le radiazioni di Hiroshima aveva contratto la leucemia e
aveva provato a fare mille gru di carta per esprimere un desiderio, ma era
arrivata solo a 644 prima di esalare l’ultimo respiro.[5]
Ho preso la carta per origami che
nostra madre tiene nel secondo cassetto del comodino in camera sua. Ormai sono
anni che non la usa più, l’ultima volta che ci aveva provato si era innervosita
e li aveva stracciati tutti con rabbia, lanciandoli per la stanza. Sembrava
quasi nevicasse rancore quel giorno.
Ho iniziato a piegare e piegare, un
angolo dopo l’altro, un foglio dopo l’altro. Ho sentito la carta, affilata
quanto una lama, penetrarmi nella carne delle dita. Ma non mi sono fermata.
Mille gru di carta. Ce l’ho fatta. Ora ho le mani piene di cerotti, ma ne è
valsa la pena.
Manca ancora una cosa, un vecchio
telefono a cornetta. Spero che papà non si arrabbierà troppo se prendo in
prestito quello in bottega… Domani mattina lo rimetterò al suo posto e non se
ne accorgerà nemmeno. Anzi, quando vedrà che ti ho riportata a casa potrà solo
essere contento! E anche la mamma mi parlerà di nuovo.
La serata è trascorsa come al
solito. A tavola c’era un silenzio tombale, lei giochicchiava con le bacchette
facendo rotolare avanti e indietro le verdure tra gli spaghetti di riso, ma non
ha toccato cibo; lui aveva lo sguardo cupo, fisso sul piatto, non una parola. Pugni
serrati e quasi tremanti, non so se per il nervoso o per la tristezza. La cena
si è raffreddata come i loro cuori ed è rimasta abbandonata sul tavolo, mentre
loro sono andati ognuno nella propria stanza. Ormai non dormono nemmeno più
insieme.
Bene, è l’una. Mi conviene iniziare
a prepararmi, presto tutto questo sarà finito.
Ho indossato lo stesso kimono dorato
che avevi tu quel giorno e mi sono legata i capelli come ce li faceva papà di
solito, con il nastro di seta rosso che ti piaceva tanto.
Siamo ai primi di marzo, ma fuori fa
ancora freddo. Avverto l’aria ghiacciata di fine febbraio ed è come il lungo
strascico del vestito di una sposa. Fortunatamente, la strada per il tempio è
breve, il gelo della notte mi penetra dal kimono e mi blocca le articolazioni.
Una manica sotto al naso che inizia a colare e mi affretto ad arrivare a
destinazione.
I sette gradoni del santuario
Awashima sono già allestiti con tutte le hina
agghindate da principi e principesse imperiali, con i loro inservienti e
oggetti più cari. Si dice che durante l’Hinamatsuri
la sfortuna venga passata a loro dalle bambine, augurando così bellezza e buona
salute.
Dentro è pieno di bambole, spero di
non perdermi.
Uno, due, tre, quattro… a sinistra.
Sette, otto, nove, ancora a sinistra. Cinque, sei e… ecco! Dovresti essere
proprio qui sorellina. Aspetta solo un attimo che prendo il martello e…
«Crack!»
«Hidoi ne…»[6]
Tolgo delicatamente i frammenti di
ceramica rimasti della bambola che ti conteneva, quella in cui papà… quella in
cui quel mostro aveva sigillato il
tuo corpicino.
Chiaki, odori di morte.
Posso vedere i tuoi piccoli dentini
da latte spuntare dalla carne marcia in putrefazione, gli occhi sono ormai
cavità vuote e senz’anima e dei tuoi bellissimi capelli neri è rimasta una
manciata di ciocche rade e sparse sul cranio mummificato.
La puzza è insopportabile, trattengo
a stento il vomito.
Eri ancora fradicia quando sei stata
chiusa qui dentro e la tua pelle di porcellana si è cotta e ammuffita,
riempiendosi di grinze e insetti.
Scusa, ma devo farlo. Tiro fuori
dalla saccoccia il piccolo daruma[7] rosso che mi sono portata dietro: ho colorato
uno dei due occhi bianchi con l’inchiostro nero, quando ti avrò riportata
indietro colorerò anche il destro così da mostrare gratitudine per la
realizzazione del mio desiderio ridandogli la vista. Forzo leggermente la tua
mandibola, sembra proprio che tu non la voglia aprire… Posiziono il daruma
sotto la lingua, mentre larve di mosche scivolano fuori.
È orribile pensare che abbiano fatto
dimora nel tuo pancino per poi nutrirsi delle tue interiora.
Adesso tocca alle gru. Una per una,
disposte a cerchio intorno a ciò che rimane di te. Ora la stanza vista
dall’altro deve sembrare uno strano mosaico.
Un’ultima cosa: il telefono. A
quanto pare non serve che sia attaccato, quindi…
«0081 - 4444 - 4444»
Chiudo gli occhi e conto fino a
dieci.
3 marzo, ore 4:44Non mi sembra che sia cambiato
nulla, non percepisco alcun rumore. Avrò fatto tutto giusto?
Aspetta… sento… è una musica flebile
…
Riapro gli occhi.
Quello che vedo non ha niente a che
fare col nostro mondo, ma allo stesso tempo è come se fosse così familiare…
Una distesa verde, un prato che si
estende per chilometri e chilometri. Ma sembra tutto finto. Il cielo è così
piatto che pare dipinto su un foglio di carta con un azzurro brillante. Non ci
sono nuvole… non c’è niente.
Faccio qualche passo, ma subito mi
blocco.
C’è… c’è qualcosa sotto alla mia scarpa. Qualcosa di viscido e molliccio.
«AAAAAAAAAAAHHHH!!!»
È un occhio! Un orribile bulbo
oculare spiaccicato tra la suola della mia scarpa e ha… ha ancora il nervo
attaccato! Ma da dove viene? E soprattutto, di chi è?!
Non ci sono risposte.
Poi mi rendo conto che tutto il
prato è ricoperto di organi umani: visceri srotolati, reni e cuori ancora
pulsanti, occhi che mi fissano non appena mi muovo e polmoni senza un corpo che
continuano a respirare.
È l’inferno. Chi ha immaginato
questo posto ha creato l’inferno perfetto…
Devo trovare Chiaki e uscire da qui
al più presto.
Il carillon continua a suonare,
decido di seguire la musica.
Cammino per minuti interminabili in
quel cimitero di organi, finché appare una porta.
È completamente bianca, ma intorno
non vi sono pareti. Non ci sono stipiti, né mura o finestre. Una porta nel
mezzo del nulla. Bello scherzo del cavolo. Mi avvicino e appena provo a spingere la maniglia si spalanca su
una stanza piena di fiori.
«Coraggio Nahoko, ricorda perché sei qui.»
Continuo a ripetermelo ad alta voce
sperando di trovare la forza di proseguire.
Trattengo il fiato ed entro prima di
potermene pentire.
Fiori lilla ed edera incolta
ricoprono tutte le pareti, ma non sembra esserci nient’altro. Provo a
strapparli per vedere se oltre i muri c’è dell’altro, ma ogni stelo, ogni
foglia o corolla che sradico sanguina copiosamente. E urlano. In modo
assordante. Le mie orecchie stanno per esplodere mentre le mani grondano di
sangue.
Finalmente, scorgo un piccolo
pertugio. Gattono lungo il cunicolo claustrofobico fino a sbucare in un cubo
che inizia a restringersi velocemente con me all’interno, sono terrorizzata, le
pareti mi stanno schiacciando e non posso più muovermi. Non si fermano. Fa
male, un dolore insopportabile. Sento le ossa stridere, iniziano a spezzarsi
come tanti gessetti. La testa pulsa, gli occhi mi schizzano fuori dal cranio
per la pressione e tutto il mio corpo viene triturato traboccando come
poltiglia dalle fessure del cubo, ormai divenuto minuscolo.
È buio. Sono morta? Ho fallito?
No. La musica è
più vicina. Mi muovo. Sbatto contro qualcosa.
Una luce
flebile. Metto a fuoco.
Sono come un neonato che apre gli occhi sul mondo per la prima
volta.
Davanti a me
una bambola hina. Si muove goffamente. Copia i miei gesti.
«Hey smettila, cosa fai? Mi metti paura, stupido fantoccio.»
Ma la
superficie è uno specchio. Io sono la bambola. Le dita di ceramica. Il viso
dipinto. Occhi
di vetro e bocca dipinta di un rosso troppo acceso per i miei gusti. Le giunture
rugginose si articolano a fatica.
Devi stare attenta a cosa desideri, Nahoko…
ora sei anche tu uno di quei piccoli mostri che papà tanto ama.
È tutto così assurdo.
«IO RIVOLEVO SOLO
INDIETRO LA MIA SORELLINA!»
Lancio un grido e cado preda di un
pianto infantile, disperato ma senza lacrime… le bambole non piangono.
Un sibilo mi raggela per un istante.
«Nahokoooooooohhh»
Riconosco quella vocina!
«Chiaki, sei tu? Chiaki, sono qui! Sono venuta a prenderti!»
Pronuncio il suo nome fino a sentire
la testa scoppiare. Poi capisco che dalla mia bocca non esce più alcun suono.
Eccola! La vedo. Piccola ombra
veloce e sfuggente. Sembrava proprio lei…
Ma sono bloccata in questo corpo che
non ha più nulla di umano.
Non posso raggiungerla in alcun
modo.
«Chi sei? Perché mi fai questo?» - Mi concentro sui miei pensieri sperando
che qualcuno possa comunque sentirmi.
«Allora Nahoko, non vieni a giocare?»
È davanti a me, come un piccolo
miracolo.
Vorrei risponderle, ma per quanto mi
sforzi resto solo un’inutile bambola.
«Adesso ti aiuto io, onee-san!»[8]
Sì, ti prego, ho fatto un disastro…
aiutami.
Avvicina le sue delicate e piccole
manine al mio viso.
Ma poi lo afferra e lo sbatte con
violenza contro al pavimento.
Chiaki cosa fai?! Aiuto! NOO!! MI
FAI MALE, FERMATI!
Scaraventa ripetutamente la mia
testa sul suolo, finché le crepe si irradiano lungo tutto il cranio. Poi
strappa i pezzi di ceramica rotti dal mio corpo e dentro… dentro sono ancora di
carne! Carne macilenta, fasci di muscoli senza pelle, nervi scoperti che al
solo contatto dell’aria mi fanno rimpiangere di non essere più una bambola
inanimata.
E come se quest’incubo non fosse
ancora abbastanza, dalla sua bocca inizia a spuntare qualcosa: la mandibola si
spacca a metà e dalla gola vedo emergere lo stelo di un fiore che sboccia
facendo nascere un enorme occhio nella corolla e lasciando della piccola Chiaki
solo un guscio vuoto di pelle a terra.
Vomito.
Perché sta accadendo tutto questo?!
«Devi accettarlo».
Sento una voce profonda e dominante
nella mia testa che non mi appartiene.
«Chi sei?!»
«Devi accettarlo,
Nahoko».
«Non capisco di cosa parli. Chi sei? E poi come fai a sapere
il mio nome? E dov’è la vera Chiaki?»
Non ho avuto più alcuna risposta.
La mia carne si scioglie, i denti si
staccano dalle gengive rimbalzando al suolo. Intorno al mio viso fioriscono
petali cremisi e dalle dita dei piedi germogliano radici che si vincolano al
terreno.
Forse non riuscirò a salvare Chiaki.
Forse non riuscirò a tornare a casa.
Capitolo IV: “L’Hinamatsuri”
Sono qui per raccontare una storia.
Una storia d'amore e di orrori, di
morte e attaccamento alla vita.
È la storia di qualcuno che ha
perduto la strada, che ha scordato da dove viene e perché. Qualcuno che non ha
voluto accettare la realtà e per questo ha molto patito.
Un’altra prospettiva può creare una
versione dei fatti completamente differente, che non è giusta né sbagliata,
solo diversa.
Ma siamo giunti al termine del
racconto, il mio spirito millenario ha assistito ad un altro ciclo.
Ora è il suo turno.
Il funerale di Nahoko.
L’acqua fredda e salata del Seto
Naikai[9]
accompagnerà il viaggio della piccola, così come è stato per sua sorella e per
tutte le altre.
Mancano poche ore all’inizio del
festival, Hitomi cerca di nascondere nel trucco gli occhi gonfi dell'ennesima
nottata di lacrime e indossa il suo kimono più bello; Seichi sta preparando le
sue cose, la bottega è svuotata da tutte le bambole hina, ormai ne manca solo una.
Non sa come sia successo ma si è
rotta. Eppure era stato così tanto attento a maneggiarla sempre con cura. «Chissà se funzionerà ancora». - Si chiede.
A volte i nostri desideri più
irrefrenabili ci spingono a fare delle follie, persino a diventare qualcuno che
non siamo o a far accadere cose che forse non potrebbero succedere davvero.
A volte, quando ami intensamente
qualcosa, puoi regalargli un’anima. Una scintilla di vita racchiusa in un
oggetto che desidererà il tuo amore in eterno.
Ma a volte, un desiderio così
ardente può farti scordare chi sei.
E quando ritorni in te potrebbe
essere troppo tardi.
Al mio interno dimorano centinaia di
bambole oggi; negli ultimi quattordici secoli ho visto tanti oggetti amati a
tal punto da trasformarsi in feticci carichi di un'energia spirituale fuori da
questo mondo.
Non so dove si trovi la piccola
Nahoko ora, ma credo che sia riuscita ad affrontare la realtà e a riprendere il
suo posto nell’universo. Ha trovato la sua identità, ha ricordato. E forse
adesso potrà essere finalmente libera.
Ogni anno, il terzo giorno del terzo
mese, durante il festival dell’Hinamatsuri,
si svolge il rituale hina-nagashi,
dove centinaia di bambole vengono lasciate in acqua, augurandosi che con questo
funerale portino via la sfortuna con sé.
E ogni anno, Seichi partecipa
assieme a sua moglie Hitomi, che non è mai stata in grado di concepire la bimba
che tanto desideravano.
Così, avviandosi al porto dove aveva
dato l’addio alla hina chiamata
Chiaki, si appresta a salutare anche Nahoko, poggiandola delicatamente in mare.
Ma si accorge che al suo interno, tra le fratture della sua fragile porcellana,
è spuntato un piccolo germoglio.
«Che strano, ieri questo non c’era. Speriamo che sia di buon
auspicio. Hai visto, Hitomi? Forse quest’anno è davvero la volta buona!».
E mentre abbandona alle gelide acque
dell’oceano un’altra delle sue tante “creature”, prega perché un giorno non
troppo lontano una bambina vera risponda al loro bisogno di amore.
Fine
[1] Artigiano che crea bambole hina.
[2] “Copia fallita”.
[3] Piccola città giapponese nota per il suo
legame con il mare e il Santuario Awashima, famoso per le sue numerose bambole
offerte in segno di devozione.
[4] Quattro si dice “shi”, che suona anche come
“morte”. Per questo i giapponesi tendono a considerarlo sinonimo di sfortuna.
[5] Sadako Sasaki (1943 – 1955) fu una dei
sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima. Le è stata dedicata una
statua con targa mentre tende una gru d'oro verso il cielo. È possibile per i
visitatori lasciare una gru di carta in una grande urna, unitamente a un
messaggio.
[6] Esclamazione giapponese traducibile con “è
terribile”, “è crudele”.
[7] Figurine votive giapponesi che rappresentano
Bodhidharma, fondatore e primo patriarca dello Zen. Simboleggiano ottimismo,
costanza e forte determinazione per un obiettivo importante non ancora
raggiunto.
[8] “sorella maggiore”
[9] Il mare interno di Seto;
separa tre delle quattro principali isole del Giappone ed è utilizzato come via
d'acqua di importanza internazionale che unisce l'oceano Pacifico e il Mar del
Giappone.

Attendo il seguito di questo racconto spero verrà postato tutto, finale compreso, vero?
RispondiEliminaCiao, ti posso confermare che il racconto verrà postato tutto, ancora due puntate e potrai scoprire il finale della leggenda di Alito di Vento.
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