Thriller "L'Estate delle lumache colorate" - Brano estratto dal capitolo 28

 Un estratto dal Thriller "L'Estate delle lumache colorate"

Buona lettura


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Brano tratto dal capitolo 28 "Angeli di carne"

Il trillo del telefono scosse l’ambiente e anche le pareti parvero vibrare di una tensione palpabile. L'uomo avvicinò il comodino fissando l’apparecchio e distese il braccio esitante senza sollevare il ricevitore. Il suono cessò dopo il terzo squillo e tutto tornò a immergersi nel silenzio.

La mano incerta, tesa a mezz’aria, si chiuse in un pugno deciso mentre un’eccitazione evidente pervase la camera.

Ora sapeva quel che doveva fare.

Uscito dall'abitazione strizzò gli occhi per il forte riverbero pomeridiano. Il cielo si stava increspando di nuvole sparse dal colore incerto e un’improvvisa brezza andava mulinando per la strada polvere e vecchie carte abbandonate. La temperatura era ancora molto elevata nonostante fossero quasi le diciassette. Qualcuno lo riconobbe salutandolo lungo la via e lui ricambiò con un sorriso gioviale. Era un giorno come un altro, tutto doveva essere come sempre era stato anche se nella sua mente lo aveva atteso per anni vivendolo innumerevoli volte.

Si fermò al bar Centrale e scelse uno dei tavolini esterni. Ordinò un caffè e la Susy glielo portò, nero e senza zucchero com’era solito consumarlo. Sfogliò distrattamente le pagine di un giornale sportivo abbandonato sulle sedie e, appena pagato, si accomiatò con un gesto allontanandosi dal locale.

 Attraversando il piazzale della chiesa costeggiò i muri dell'oratorio di Santa Brigida imbrattati di segni, soffermandosi qualche istante su una scritta insolita che riportava: “Cris ho venduto l’anima per te.. A quanto pare c’era qualcun altro disposto a barattare per amore qualcosa di sé stesso.

Anche il suo era amore?

Scosse la testa, pareva turbato. Proseguì fino ai giardinetti dove c'erano un paio di altalene e uno scivolo. Di solito il posto era molto frequentato a metà pomeriggio, ma dopo gli ultimi fatti accaduti trovò solo due bambine che litigavano per chi avrebbe dovuto spingere l'altra sull'altalena. Poco distante, su una panchina una donna intenta a leggere qualcosa: non riusciva a distinguerla bene, se non per le gambe abbronzate e lucide che scavallavano da una vistosa minigonna a rombi bianchi e neri.  

Ma non erano quelle gambe a stimolarlo.

L'uomo sedette sul bordo di un’aiuola fingendo di guardare la strada, poi si concentrò sul palcoscenico che attirava il suo interesse, quello calcato dalle due graziose creature.

Avevano sette, forse otto anni. I loro vestiti di cotone, corti e ariosi, sventolavano a ogni movimento, specialmente quando sull'altalena spingevano con forza le gambe verso il cielo. Una delle due scese dall'asse e gli corse incontro fermandosi impettita proprio di fronte a lui.

“Ci spingi sull'altalena?”

Le indirizzò un'occhiata sfuggente senza rispondere.

La bambina lo fissò con un sorriso disarmante:

“Ci spingi a tutte e due per favore? Solo per poco, così non dobbiamo farlo noi e possiamo andarci insieme senza scendere.”

Era bionda come il grano. Lunghi capelli lisci raccolti in una coda oltrepassavano le scapole guizzando al vento, mentre la fitta frangetta era fissata di lato da un fermaglio di smalto bianco a forma d’orsetto. Il vestito azzurro pastello punteggiato con piccoli pois beige la rendeva aggraziata, anche se una macchia marrone di gelato in bella mostra proprio al centro ne spezzava il fresco candore. Di quel riquadro di innocente bellezza, il particolare che l'uomo isolò fu una goccia di sudore che, imperlando la fronte della bambina, scese incerta percorrendole il viso lungo tutta la guancia.

Cercò di mantenere un tono distaccato rispetto alla fibrillazione che lievitava nel suo petto:

“Non c'è la tua mamma a spingerti?”

 La piccola, sbuffando visibilmente, indicò con il dito teso:

“Sì, è là sulla panchina, ma quando veniamo qui vuole sempre leggere i suoi stupidi libri e non viene mai a giocare con noi!”

Guardò intensamente verso la panchina dov'era seduta e la riconobbe. In paese la chiamavano Titti, Elisabetta, non ricordava il cognome. Le bambine erano le sue figlie e lui le aveva viste crescere come tante altre nel Borgo, solo le ricordava più piccole. Gli anni scorrevano attraversando il corpo e la mente delle persone trasformandole, ma in lui questo processo non era mai avvenuto. Lui non era mai cambiato. I suoi desideri erano rimasti gli stessi da quand’era ragazzo, desideri malati che avevano una sola cura.

“Allora, ci vieni a spingere?”

Si alzò ricambiando un largo sorriso e tirò fuori dalla tasca un fazzoletto profumato passandolo più volte su fronte e collo.

“D'accordo, ma solo per qualche minuto perché tra poco devo andare.”

La seguì fino all'altalena e la vide salire a fianco della sorella. La madre alzò appena lo sguardo dal libro e, riconosciutolo, gli fece un sorriso per poi tornare ad immergersi nella lettura.

Lui, come avesse ricevuto la sua benedizione, appoggiò le mani sulla schiena di entrambe subendone un brivido al solo contatto. Iniziò a spingere, dapprima piano e poi, incitato dalle urla, sempre più forte.

Le due fanciulle salirono verso il cielo, angeli incontaminati, mentre i vestiti si alzarono con loro quasi impercettibili mettendo in mostra le mutandine colorate. Ora le sue mani non si fermavano più e ad ogni spinta scendevano sempre più in basso, sfiorando quella striscia di pelle nuda come fosse il paradiso.

Il cuore gli scoppiava in petto facendo affiorare sul volto paonazzo piccole vene ispessite che marcavano i lineamenti fin quasi a trasfigurarli.


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Un immagine di Antonia, la tredicenne protagonista della drammatica vicenda


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