Un piccolo assaggio di Antologia...

 Leucofobia 

Tratto dall'antologia di prossima uscita: "Favole inquiete"

  



    Nel sogno era di nuovo bambina. Sentiva le braccia scottare sotto il sole di luglio, tese alle catene dell’altalena per interminabili minuti. E quel dolce rollare nell’aria salendo in alto insieme ai suoi sogni le trasmetteva un senso di pace interiore. Le visioni erano sempre così nitide e intense che pareva percepirne anche i profumi. C’era quello dei gelsomini, soffici nuvole di fiori candidi che ornavano il giardino emanando un aroma dolce e avvolgente, e quello leggermente salmastro e vitale del mare che circondava l’orizzonte fin dove riusciva a vedere. Ad ogni spinta, alla sua vista appariva dapprima il sentiero di sassi e quindi la casa, un piccolo edificio dalle mura grezze e biancheggianti di calce che parevano sospese nel blu. Ogni tanto il suo sguardo incontrava il volo argenteo di qualche insetto che ronzava incrociando il suo saliscendi verso il cielo, ma l’ospite inatteso era parte di quelle immagini serene e non le induceva alcuna paura. Se avesse potuto comandare il sogno a suo piacimento lo avrebbe fermato a quegli attimi, ne avrebbe riannodato lo scorrere inconsistente del tempo fino a prolungarlo all’infinito. Ma d’improvviso accadeva qualcosa. Un richiamo ancestrale, una voce perduta che saliva dal suo inconscio e doveva interrompere il gioco. Fermava l’altalena e fissava la casa. A quel punto la materia impalpabile che mentre dormiva l’aveva fatta sorridere fino all’istante precedente, mutava la trama. E lei sudava. Avvertiva un disagio così forte che ormai il suo cervello aveva perfettamente appreso il meccanismo e, quando giungeva davanti alla porta, il dispositivo scattava in una sorta di autodifesa costringendola a un risveglio immediato. Forse per non andare oltre. Forse perché aveva paura di conoscere chi o cosa ci fosse ad attenderla dietro quella soglia. Al momento che si ridestava era sempre madida, anche in inverno, anche quando in stanza il tepore dei caloriferi si era ormai dissipato e l’aria ritornava fredda. 

Di quell’istante, quello prima dell’interruzione, ricordava solo il colore bianco. Un bianco freddo e abbacinante, colloso e talmente denso da toglierle il fiato. Era in terapia già da sei anni, aveva scoperto che il suo problema aveva un nome ma non era mai riuscita a risalire alla causa: Leucofobia, l’aveva battezzata lo psicologo, paura del colore bianco. Perché in effetti di questo si trattava e lei ne era ben conscia, aveva eliminato quel colore dalla sua vita appena adolescente, ma poi la situazione era addirittura peggiorata sfociando in crisi di panico e mancanza d’aria al solo incrociare quella tinta. Non aveva senso. Che male può fare un colore? Se lo era chiesta fin dall’inizio trovando una sola risposta: in questa vita esiste ben altro da temere davvero. Eppure, dopo le continue ricadute era stata costretta a drastiche decisioni facendo sparire ogni oggetto del colore innominabile e tentando di alzare intorno a sé una barriera impenetrabile, ma fuori dalle sue mura la battaglia era perduta senza nemmeno poterla combattere. Quindi aveva optato per un lavoro al PC domestico, faceva acquisti soltanto online anche rischiando di sbagliare le scelte e quando si trovava costretta a spostarsi da casa per qualcosa di inderogabile si era dotata di una serie di occhiali dalle lenti colorate, per edulcorare tutto quel candore del quale il mondo esterno traboccava. Chi la conosceva, dopo molte perplessità, aveva finito per accettare la cosa; entrando nella sua abitazione si animava uno sfarzo di colori distribuito equamente in ogni locale, una gioia per gli occhi che donava all’ambiente particolare stravaganza. E sul momento riceveva solo complimenti, – Ti ha aiutato un architetto? – era la domanda più frequente, ma poi osservando meglio ci si rendeva conto di quella strana “assenza”. Per gli amici più intimi il segreto non era mai esistito, per tutti gli altri confessarlo le creava imbarazzo. E allora cambiava discorso, tirava fuori le condizioni meteo del giorno dopo piuttosto che la ricetta che aveva appena scoperto su internet. Gli anni erano trascorsi senza grandi miglioramenti, gli psicologhi erano stati tre a succedersi senza decisivi passi in avanti, e sull’ultimo si era fermata: Carlo Manetti, laureato a Padova nella migliore università italiana sulla materia. Nemmeno con lui la sua fobia era migliorata di molto e probabilmente non si sarebbe mai risolta, ma nonostante le sedute terapeutiche, quasi tutte rigorosamente in videoconferenza, si era generata un iniziale empatia sfociata coi mesi in una complicata love story. Deontologicamente non molto professionale, però a lei la scintilla che era nata aveva dato conforto. Intessere relazioni sociali era già difficile col suo problema, portare avanti un amore quasi impossibile. Seppur costretta a trascorrere isolata molto del suo tempo libero, Lidia non era affatto una brutta ragazza. Aveva ventiquattro anni, fisicamente era nel fiore. Faceva palestra, naturalmente in casa, e curava con grande attenzione il suo aspetto anche se erano in pochi quelli a vederla. Una zazzera asimmetrica dai toni castagna le infondeva una certa personalità, il resto del viso, tratteggiato da linee garbate, era completato da labbra sottili ma ben disegnate e occhi verdi spruzzati di pagliuzze dorate che al riverbero del sole ne accendevano lo sguardo. 

Con Carlo si frequentavano soprattutto la sera, più facile nascondere nell’oscurità le trappole tese per strada ad ogni angolo o locale. Lui sapeva che a volte le lenti colorate non bastavano a bloccare la crisi, perché sporadicamente capitava quell’istante di distrazione o di curiosità in cui uno spicchio di bianco penetrava la retina e innescava sinapsi immediate che viaggiavano al cervello stimolandone il pronto blackout. In un paio di occasioni la crisi era stata talmente violenta che avevano dovuto abbandonare il locale, rientrare a casa di lei e utilizzare dei tranquillanti per contenere il turbamento. Questi episodi avevano insegnato a Carlo a compiere addirittura delle ricognizioni preventive valutando il posto di persona, i vari percorsi per arrivarci e gli orari migliori. Poi un imprevisto poteva sempre capitare e doveva tenerne conto. Al Dark Lagoona, un night dall’ambientazione gotica meta di qualche sabato, una sera mentre ballavano nella pista principale si era presentata una ragazza con un abito lungo dalle maniche a pipistrello molto abbondanti, talmente candido che persino sotto le luci stroboscopiche saettava flashate intermittenti. Inutile dire che Lidia c’aveva messo solo pochi secondi a reagire in maniera negativa. Anche perché la parte più difficile da spiegare nei suoi comportamenti era quasi una sorta di autolesionismo masochista: una volta venuta a contatto visivo con il bianco ne restava soggiogata, una falena attirata dal fuoco pur sapendo che si sarebbe bruciata. E non c’erano difese, non riusciva a sfuggirgli, arrivava persino a togliersi gli occhiali per meglio affondare dentro di sé quella lama e precipitare nel suo personale abisso latteo. 

Carlo non aveva mai sottovalutato la malattia, sicuro di riuscire nel tempo a limitarla fino a poterla vincere. Si era preparato, aveva predisposto sul classico lettino sedute freudiane convinto dell’esistenza di un trauma infantile, causa scatenante della inconsueta fobia; aveva studiato casi simili chiedendo anche l’aiuto di colleghi ritenuti più esperti di lui… poi, vedendo il persistere e la gravità dei sintomi in risposta a tutti i suoi tentativi, si era quasi rassegnato e aveva assunto lo stesso comportamento di Lidia schierandosi in difesa ed eliminando fisicamente il colore dalle loro vite, non il seme che generava malessere. Poi un giorno… 

 “Ciao amore com’è andata, oggi?” 
 “Terza settimana terminata senza una crisi. Bene, sto bene, un pochino stanca perché ho fatto tardi stanotte a verbalizzare le trascrizioni urgenti che mi hanno mandato dall’ufficio ma adesso mi faccio un riposino per ricaricare le batterie.” 
“Dai allora, che ne dici stasera di farci un’uscita per festeggiare? Ogni piccola conquista va celebrata come si deve.” 
“Nessuna conquista, lo sai, sono uscita solo tre volte in questo periodo e con itinerari programmati.” “Appunto per questo, non voglio forzarti ma neppure mi va di lasciarti a macerare nella tua routine depressiva. Dobbiamo continuare a provarci, la vita passa e non ci aspetta, non vorrai mica perderla tutta così, no?”
“Senti, ne abbiamo parlato un milione di volte. Sai benissimo che non lo faccio apposta e che io per prima vorrei potermi godere un briciolo della gioventù che mi sta scappando di mano. Non posso farci niente se sono malata, e tu più di tutti dovresti capirlo dato che siamo insieme da undici mesi e hai accettato questa situazione. Io sono sempre stata chiara con te, se mi scegli devi farlo così come sono altrimenti amici come prima… anzi, paziente e dottore come prima!”
 “Ok. Si sente che hai dormito poco, hai le palle girate ma sono talmente ben disposto che sarò da te alle 19:30 puntualissimo, ti porto a cena al Nero di Seppia, è un locale che ho scoperto da poco. L’hanno aperto in zona centrale, piatti ed elegantissimi tavoli neri come la pece in uno splendido sfondo blu marino che dai pavimenti si arrampica sulle pareti. Servono ricette spettacolari a base di astice americano. E poi finita cena facciamo un saltino al Mistery, serata techno dark, ho riservato un privé dalla mezzanotte. Ci facciamo quattro salti e, se ti va, passiamo la notte insieme da te. Allora che dici? Attenta che se pronunci un no avrai sulla coscienza un poveretto assiderato che a fine dicembre attende sotto al tuo balcone con un mazzolino di fiori ormai ghiacciati e una scatola di cioccolatini che avrà dovuto aprire e consumare fino all’ultimo perché sua unica fonte calorica di sopravvivenza.”
 Una risatina forzata precede la risposta al telefonino. 
 “Stupido! Stupido che non sei altro! Così mi fai sentire più in colpa! Ci vengo, ci vengo volentieri ma sappi che lo faccio per l’astice e non per te.”
 “Beh, quando saremo seduti al tavolo davanti alla bestia bollita che ci osserva io gli esprimerò tutta la mia più sincera gratitudine per avermi permesso di portare fuori la mia fidanzata e godere finalmente della sua compagnia.” 
 Pronunciata con grande serietà ed enfasi, l’uscita di Carlo scatena ancora l’ilarità della ragazza che non la smette più di ridere. 
“Dunque, nel linguaggio medico sappi che questo tipo di reazione viene considerata inequivocabilmente un sì!” 
 Una breve pausa e il tono della voce di lei torna a farsi serioso. 
 “Ma se poi succede qualcosa? Non voglio assolutamente rovinarti la serata, tu meriti di godertela come si deve senza pesi morti sulle spalle che ti condizionano la vita.” 
 Stavolta anche la voce dell’uomo assume una tonalità più decisa. 
“No, Lidia, sei tu che hai bisogno di ricominciare a goderti la vita senza che la tua mente parta prevenuta ogni volta. Non pensare a ciò che potrebbe accadere, esci con me stasera non con la tua fobia.” 
 Dopo qualche rassicurazione la chiamata si interrompe e, puntuale come aveva preannunciato, Carlo si presenta alla porta con aria festosa. 
 “Uao! Lenti arancio, stasera, ti stanno da Dio. E anche il vestitino che indossi è una bomba, ma non avrai freddo? La temperatura non scherza, io ho le mani congelate per soli tre minuti di strada da dove ho parcheggiato.” 
 “No, ci metto sopra il cappotto e poi siamo in macchina.” 
 Venti minuti dopo sono di fronte all’insegna blu che illumina l’ingresso del ristorante. 
 “Entra, intanto, così non prendi freddo e ti eviti la strada mentre cerco un parcheggio. Il tavolo è prenotato a nome mio in un bell’angolino della sala con accanto un acquario. E vedi di non attaccare gli antipasti prima che arrivo.” 
 “Dipende da quanto ci metti, non prometto nulla.” 
 Si scambiano un sorriso e lui ingrana la marcia rimettendosi sulla carreggiata mentre Lidia, dopo un timido sguardo al circondario, punta decisa alla porta del locale. Si ferma davanti alla vetrina dando una rapida scorsa alla carta del menù ma appena decide di entrare non vede lo scalino e perde l’equilibrio in avanti finendo in ginocchio. 
 “Signorina! Signorina si è fatta male?! L’aiuto a rialzarsi.” 
 “Io… no no, non è niente… sono inciampata come una scema nel gradino… non lo avevo visto.” 
 “Le do una mano.” 
 Rialzandosi guarda le gambe e la calza velata che ha riportato una lieve smagliatura sul ginocchio, è leggermente confusa e imbarazzata per la figura da imbranata fatta proprio all’ingresso. 
 “Va tutto bene, signora, la ringrazio.” 
 “Guardi che ha perso questi.” 
 Si volta e finalmente incontra il suo sguardo. È una bella signora sui cinquanta, raffinata e con un sorriso dolce. La mano destra le porge premurosamente gli occhiali dalle lenti arancio che ha perduto cadendo. Sottobraccio tiene un cane di taglia piccola dal pelo morbido come un peluche. Un Maltese. “Signorina, guardi che sono suoi. Ho visto che sono finiti per terra mentre è scivolata. Si sente bene?” Lidia non prende gli occhiali, le sue labbra sono aperte senza che le parole riescano a fluire. Appare di colpo pallida e il respiro diviene rumoroso. 
 “Non sta bene? Vuole che chiami qualcuno?” 
 “Io… no… io… sono… è tutto bianco… è tutto bianco intorno… non respiro…” 
 “Mio Dio, mi sta facendo spaventare! Lei non sta affatto bene. Aspetti che la porto dentro e si siede, così intanto facciamo chiamare un’ambulanza.” 
 La donna la sorregge per un braccio e la fa entrare nel ristorante. Lidia è quasi assente, il suo sguardo è sempre fisso sul cane. Un tremore evidente inizia a diffondersi dalle mani e, mentre si propaga, la sua espressione sembra quella di una drogata in astinenza. 
 “Scusate! Scusate! Per favore qualcuno aiuti questa ragazza, si sente male!” 
 Il richiamo a voce alta si espande nelle due sale e alcuni avventori prontamente si alzano dai tavoli e si avvicinano. Qualcuno compone un numero al telefonino. 
 “È sua figlia? Cos’è successo?” 
 “No, non siamo parenti, ho visto la signorina qui fuori che stava entrando ma è scivolata nel gradino e poi si è sentita male.” 
 “Ha battuto la testa?” 
 “Ma no, non credo, si è rialzata tranquilla, sembrava fosse tutto a posto poi ha iniziato ad avere una crisi, penso che sia un attacco di asma.” 
 Il gestore del locale versa un bicchiere d’acqua e glielo porge inginocchiandosi di fronte a lei, ma dai suoi occhi persi nel vuoto e quel continuo ansimare comprende che la situazione è fuori controllo. “Signorina, ha sbattuto da qualche parte cadendo? Soffre di asma? Mi sente? Le ho chiesto se ha una crisi asmatica e dobbiamo chiamare qualcuno?!” 
 Le braccia di Lidia si agitano verso il cane ma nessuno capisce. 
 “Gino, chiama un’ambulanza!” “È già stato fatto, sarà qui in pochi minuti.” 
 In quell’istante Carlo entra nel locale e, dopo il primo attimo di sconcerto, vedendo Lidia senza occhiali e attorniata di gente reagisce in un battito. 
 “Scusate, sono il compagno! Va tutto bene, lasciatela solo respirare, ha solo bisogno di essere portata a casa in fretta.” 
 “Meno male che era con qualcuno. Ma è sicuro che non necessita di vedere un medico? Sembra stia molto male.” 
 “Io, sono un medico! Non vi dovete preoccupare, conosco i sintomi della sua malattia e so come agire. Grazie, grazie davvero. Ringrazio tutti per la vostra cortesia e per esserle venuti in soccorso, la carico in auto e la riporto subito a casa.” 
 Fruga nella sua borsetta ma non trova quello che cerca. Forse una grave dimenticanza, forse la volontà di smettere di dipendere dai farmaci. Con fatica riesce a condurla lungo i trecento metri dove ha lasciato l’auto. La tiene stretta a lui come un cucciolo da proteggere, avverte il polso accelerato e vede nuvole di vapore caldo uscire dalla sua bocca a un ritmo che è sintomo di iperventilazione… ma non fa domande, nessuna domanda nemmeno nel breve tragitto fino a casa. La accompagna sul divano e le toglie le scarpe, poi va in bagno e prende uno Xanax dalla boccetta, versa due dita d’acqua in un bicchiere e si siede accanto a lei. 
 “Sono qui vicino a te. Non me ne vado.” 
 Alle tre del mattino Lidia si desta di colpo. È sdraiata sul letto, disorientata e con ricordi confusi. Sa che ha avuto una crisi, la sensazione dopo è sempre la stessa e lascia quel vuoto infinito nell’anima e il sapore amaro delle benzodiazepine che ritorna al palato. Quando ruota la testa vede Carlo accanto a lei, abbandonato su una sedia con le braccia incrociate e il capo riverso su una spalla. Dorme profondamente. Un sonno rumoroso, stanco ma non rilassato. Si alza lentamente e va verso l’ampia porta finestra, la apre e una ventata gelida invade l’ambiente. Si sporge e guarda di sotto. Sono quattro piani, potrebbero bastare per far cessare gli incubi. 
 “Che stai facendo? Ti prendi una bronchite se esci conciata così. – Lidia si gira e a lui basta guardarla un attimo negli occhi per capire. – Non vale la pena, hai ancora troppo da perdere.” 
 “Cosa, cos’ho da perdere?” 
 La sua voce è glaciale come la stanza ma lui la scalda subito con una battuta. 
 “Me, per esempio! Dove lo trovi un altro medico in servizio ventiquattrore e che ti viene pure a domicilio a rimboccare le coperte?!” 
 Lidia abbassa la testa con uno sguardo velato di malinconia eppure le sue labbra non possono fare a meno di allargarsi pigramente in un sorriso. Scuote la testa. 
 “Sono stufa, Carlo, non di te ma del mio mondo.” 
 “Ma io ne faccio parte, forse lo hai dimenticato. Non ti disferai di me facendo quattro piani di corsa dalla finestra, ma se non vuoi più batterti e quella sarà la tua idea fissa per i prossimi giorni allora facciamolo insieme. Adesso. Vuoi andartene col rimorso di aver privato le donne di questa città dello scapolo migliore che c’è in giro?” 
 Chiude gli occhi e sorride mentre la voce ritrova dolcezza: “Sei l’unica cosa bella che mi è capitata in questi mesi.” 
 “Vieni. – L’afferra deciso per una mano mentre con l’altra chiude la finestra, quindi la conduce in soggiorno e le indica il divano. – Sdraiati. Hai voglia di soffrire ancora un po’?” 
 Lo guarda smarrita. 
“Non vedo l’ora. Che intenzioni hai?” 
 “Voglio ritentare una regressione, è il momento migliore perché è appena accaduto. Tu sei stata là. Tiriamo fuori il tuo incubo e ce lo cuciniamo a colazione. Ora ascoltami, Lidia, stai rilassata e pensa a stasera: sei davanti al ristorante, è successo da poco. Ho visto la signora col cane, non è lui a scatenare il tuo inconscio, è il suo colore… bianco… ma il bianco da sempre simboleggia purezza, è candore, è pace. Il colore bianco dovrebbe esprimere sensazione di benessere, dare equilibrio ai nostri sogni, ai conflitti interiori. A volte però può rappresentare anche altro, gli antichi lo associavano alla morte, all’aldilà, veniva usato per commemorare i defunti e per avvolgerli nei sudari. Ora tu immagina che tutto il male ti è già stato fatto, tutto si è già compiuto; chiudi gli occhi e portami dove sei stata stasera.” “No, non credo sia possibile… non ci sono mai riuscita… non ho mai visto cosa c’è oltre quella porta.” “Mi hai sempre detto che sei in un giardino, sei una bambina e stai giocando con l’altalena. Davanti a te c’è una casa, ha le mura completamente bianche e anche in giardino ci sono fiori bianchi. L’atmosfera è bella, serena, sei felice… probabilmente ti trovi in vacanza, vedi il mare all’orizzonte dietro la casa. Forse sei in Sicilia o su una piccola isola greca… La vedi la casa? La vedi adesso, in questo momento?” “Sì… io… la vedo…” 
 “Scendi dall’altalena e vai verso quella porta. Sei spaventata? Quella porta ti fa paura?” 
 “No… ma non voglio aprirla…” 
 “Chi c’è dietro quella porta? Pensa al suo volto… eri una bambina lasciata sola fuori a giocare… forse è tuo padre, Lidia, o tua madre… oppure ci sono entrambi e stanno facendo qualcosa… qualcosa di sbagliato che non ti piace, ti disturba… forse sono nudi, stanno facendo sesso e questo ti crea dolore, ti imbarazza…” “N…no… c’è una scala…” 
 “Guarda i suoi gradini e sali… Sali lentamente fino in cima perché sei curiosa… più curiosa di tutte le altre bambine che conosci… non c’è niente da avere paura… è la tua casa, sei in vacanza, non può succederti niente di male… Ci sei, Lidia? Sei arrivata, che cosa vedi?” 
 “C’è papà… il mio papà… – la voce assume un tono infantile – c’è la vernice per terra… i pennelli… è sulla scala, sta dipingendo la stanza di bianco… mi chiede di aiutarlo…” 
 “Cosa fai per aiutarlo?” 
 “Prendo il pennello… sono capace anch’io di pitturare… a scuola sono brava…” 
 “Dov’è mamma? Dov’è la tua mamma, Lidia? È lì in quella stanza insieme a tuo padre?” 
 “Nnnhh… non lo so… no… non lo so…” 
 “Dov’è la mamma? La mamma, Lidia, tua madre la vedi?!” 
 “Aaahhhh!!” 

 Cimitero Maggiore di Milano 
 

È tardo pomeriggio, sono i primi di gennaio. L’aria è stranamente tersa come se il grigiore e lo smog cittadino avessero deciso per un giorno di non timbrare l’ingresso. Ha lenti gialle, indossa un jeans e un giaccone sportivo invernale. L’impatto con la struttura le fa battere il cuore, le gambe si bloccano per un attimo. Chiude gli occhi e inala una profonda boccata d’aria gelida che liberandosi nei polmoni la scuote, poi supera il colonnato e chiede all’edicola per le informazioni posta nel sagrato all’ingresso. Ci vorrà un po’ solo per arrivare, il posto è immenso e non sarà una visita breve ma non ha fretta. Non più. Imbocca il viale centrale. Qualche segno d’incuria sulla strada asfaltata e in alcune strutture, però nella prima parte del cimitero trova una serie di tombe perpetue e di piccole cappelle che attirano l’interesse e la distraggono. Cammina per venti minuti abbondanti prima di inforcare un vialetto laterale dal catrame ben steso che sembra appena rifatto. Ci sono alberi immensi che lo contornano, cipressi e pini marittimi. C’è soprattutto un grande silenzio. Percorre un filare di tombe finché il suo corpo si irrigidisce di fronte a una. 
 “Ciao Papà. Ci sono voluti quindici anni. Forse ti sembreranno tanti ma per una bambina di nove dimenticare certe cose non è facile. Te la ricordi quella bambina? Era felice. Sì, ne sono sicura, era felice prima che tutto accadesse. Le sue preoccupazioni principali erano i problemi di matematica che non riusciva a comprendere e qualche amichetta stronza che ogni tanto la isolava dal gruppo perché non aveva le scarpe di marca facendola sentire diversa. Ma queste sono cose che si superano. Per altre non basta mettere da parte l’orgoglio o chinare la testa, ci vuole molto di più… ci vogliono almeno quindici anni.” 
 
Isola di Alicudi, arcipelago delle Eolie 28 Luglio 2009 
 
“Non possiamo riparlarne in un altro momento?” 
 “No Stefano, sono così stufa delle tue mancanze e dei tuoi comportamenti che se non mi allontano da te rischio di fare qualche sciocchezza. E tu non meriti un gesto del genere, sei un uomo che pensa solo a sé stesso, stai in famiglia solo quando ti conviene e ti avvicini a me solo per i tuoi bisogni. Ma esisto anch’io, Cristo Santo, anche io ho le mie necessità.” 
 “E allora che vuoi? Cosa dovrei fare secondo te? Non ti faccio mancare niente, sei piena di vestiti, non ti perdi una vacanza, che altro pretendi?” 
 “Non sono quelle le cose di cui una persona ha bisogno. La tua mente è limitata, sei gretto, egoista, parco nella comunicazione e pure ottuso se non comprendi che la nostra unione ormai sta in piedi sul nulla. Mi sono sopportata le tue amanti sperando che col tempo saresti cambiato, ho tollerato le tue assenze a tutte le nostre attività familiari e mi sono cresciuta Lidia praticamente da sola… l’ho fatto solo per lei di resistere, per non darle un dispiacere e disfarle una famiglia alla quale far riferimento… ma sono alla frutta, Stefano, per riprendere a vivere devo farlo lontano da te.” 
 “Non mi puoi lasciare, mi devi tutto! Anche io ho sacrificato anni della mia vita dietro a una donna che non mi merita eppure ho tenuto duro e sono arrivato fin qui. E non passo tutto il tempo a fartelo pesare!” 
 “Perfetto, se anche tu ti senti logorato dal nostro rapporto lasciami libera, va a vivere con qualcuna delle tue amanti e alleggeriscimi della tua presenza. Sappiamo tutti e due che non possiamo più continuare, perché non fai questo favore a entrambi?!” 
 La donna gli gira le spalle e va verso la cucina, l’uomo sbatte per terra il pennello con un gesto di rabbia producendo una strisciata che imbratta il pavimento. 
 “Dove stai andando? Non abbiamo finito!” 
 “Io sì, Stefano, io ho davvero finito questa volta!” 
 “Cazzo, ma non ci pensi a Lidia? Pensa a come la prenderà se decidi di lasciarci.” 
 “Questa scusa non regge più, siamo arrivati a questo punto proprio perché ho sempre pensato fin troppo a lei. E poi Lidia starà con me, non ci penso a lasciarla con una persona che non ci sarà mai quando avrà bisogno e che non sa nemmeno da dove iniziare a crescere una figlia. Potrai venire a trovarla quando vuoi, non sono la donna che chiude in faccia la porta a suo padre.” 
 “E qui ti sbagli! Lidia starà con me, se mi lascerai te la porterò via e non te la farò più rivedere.” “Meschino fino in fondo, non ne dubitavo! Vedremo cosa deciderà il giudice.” 
 Marta va in camera e tira fuori una valigia, poi la getta sul letto vuotandoci sopra un cassetto. 
 “Cosa stai facendo?” 
 “Domani io e Lidia rientriamo a Milano, se non vuoi tornare con noi me ne farò una ragione, tranquillo. Questa è casa di tua madre per cui puoi starci fin che ti pare.” 
 “Andiamo non fare così, siamo passati in mezzo a tante tempeste supereremo anche questa. – La cinge da dietro infilandole una mano sotto al vestito senza ritegno. – Vedrai che ora ti faccio passare tutto quanto.” 
 Ma la reazione della donna non è per nulla conciliante: scatta rivoltandosi e lo spinge lontano da lei. “Smettila! Non voglio sentire le tue mani addosso, lo capisci? Ormai mi fa schifo sentire che mi tocchi, e io non posso stare con una persona che mi dà la nausea! Devi lasciarmi andare, è un bene per tutti e due. Vedrai che mi darai ragione, potremo rifarci una vita entrambi senza più doverci sopportare.” Stefano Reali ha gli occhi sbarrati. Quella frase lo ha colpito più di uno schiaffo. È un misto di odio, rabbia e amarezza quella che sente riempirgli la testa. La fissa ancora mentre lei non lo degna di considerazione e butta vestiti a caso dentro la valigia. Il suo cervello si spegne per un attimo, solo un istante che dura quanto una vita e quando si riprende ha in mano un coltello da cucina. Il letto è pieno di sangue. C’è sangue anche sulle pareti. Una spruzzata di minuscole goccioline ornano le marine appese e colano lungo sabbie e ombrelloni colorati. A terra steso c’è il corpo di una donna. Il vestito è completamente impregnato di un rosso vivido sulla schiena. I lineamenti sono contratti in una morsa dolorosa e sorpresa. Stefano non comprende cosa sia accaduto. Prende il corpo come un automa e lo trascina in soggiorno, poi lo tira su e lo sistema sulla poltroncina ruotandola verso il muro. 
 “Sono solo a metà parete, prima di pranzo la finisco tutta così poi nel pomeriggio passo la seconda mano. Cosa hai preparato di buono?” 
 Trascorrono minuti infiniti, tenta di aprire un’altra latta di bianco ma nel gesto si rovescia sul pavimento. Una larga colata di colore si espande densa nella stanza. 
 “Cavolo! Che imbranato che sono, ora dovrai pulire tutto, ma dopo ti aiuto non preoccuparti.” 
 In quel momento si rende conto che sulla soglia c’è Lidia. Osserva la scena, immobile. La mandibola cerca di articolare qualcosa senza riuscirci e gli occhi sono fissi a quella poltrona. 
 “Vuoi dare una mano al papà a finire di imbiancare la parete?” 
 La bambina non risponde. L’uomo impugna il coltello che aveva deposto per terra e le si avvicina. “Non preoccuparti ora vado a prendere mamma.” 
 L’istante successivo il suo corpo scivola ai piedi di Lidia che vede uno strano disegno liquido formarsi sulla gola del padre mentre, cristallizzata, resta in quella posizione, braccia lungo i fianchi e occhi fissi sul muro bianco… e trascorrono minuti… ore… 

 Cimitero Maggiore di Milano 
 

“Non sono mai riuscita a guardarti anche se eri a pochi centimetri. Non riuscivo a guardare nemmeno mamma. Ma il muro sì! Sai, di quella parete potrei descrivere ogni segno, ogni pennellata data in senso contrario, persino dove era rimasto un pelo del pennello seccato dentro al colore. Mi ha trovato la vicina quando a sera è passata e ha visto la porta da basso spalancata. Erano passate ore. Ricordo solo che mi facevano male le gambe e che per togliermi da quel pavimento pieno di vernice bianca mi hanno dovuta prendere in braccio di peso. Non credo di averti mai perdonato e nemmeno adesso che ricordo tutto lo farò. Sono qui solo per dirti che non sei riuscito a uccidere mamma, perché una parte di lei da questo momento riprenderà a vivere in me. Ora ti devo salutare, vado da lei. Non so se tornerò a trovarti, mamma l’hanno voluta seppellire distante da te, meritava di essere libera.” 
 Lidia sfila dal volto le lenti gialle fissando con espressione sprezzante il marmo biancastro della lapide e si avvia con passo deciso lungo il viale tra piccoli templi di memorie perdute.

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